Oltre L’Architettura del Technium

Come l’AI Riscrive la Nostra Umanità

Uno dei temi che trovo sempre più incompreso quando si parla di AI, intelligenza artificiale, è il nostro rapporto con questa tecnologia. Tra chi sostiene che “dipende da come usiamo la tecnologia”, chi ripete il mantra della collaborazione uomo-macchina, e chi prefigura distopie di sottomissione totale, si perde di vista un elemento cruciale: ogni tecnologia ha una sua architettura che si impone sulle nostre categorie cognitive, ridefinendo la nostra percezione del corpo, del nostro ambiente, e nel caso della rete e dell’AI costituisce un estensione del nostro stesso sistema nervoso.

McLuhan e le Estensioni Mortali

In Understanding Media: The Extensions of Man (1964), McLuhan aveva già delineato con chiarezza questa dinamica; ogni medium è un’estensione del corpo umano, ma ad ogni estensione corrisponde anche un’amputazione e così siamo costretti a intorpidire i nostri sensi per non soccombere alla continua stimolazione di informazioni dai nostri Smartphone, televisori…le nostre estensioni tecnologiche.

“Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti.”
— Marshall McLuhan

Non è forse questa la perfetta descrizione delle nostre piattaforme Social e del presente dominato dagli algoritmi? e dall’intelligenza artificiale che diventa estensione (e manipolazione) del nostro stesso ambiente cognitivo?

Il Technium di Kelly: Un Determinismo Sorridente

Ma senza complicarci troppo la vita, torniamo al punto centrale: la tecnologia segue il suo arco evolutivo secondo un’architettura che si impone alle nostre categorie cognitive, in una relazione dialettica con le nostre strutture biologiche e mentali. Per i deterministi puri come Kevin Kelly, fondatore di Wired, questo è totale: siamo entrati in un nuovo ambiente dove la tecnologia è dominante.

Kelly ha coniato il termine “Technium” per descrivere “il sistema globale e interconnesso di tecnologie” che, a suo avviso, funziona come un organismo naturale: “Il Technium è un’estensione della mente umana, e quindi anche un’estensione della vita, e per estensione anche un’estensione dell’auto-organizzazione fisica e chimica che ha portato alla vita.”

“Le invenzioni della nostra mente pervadono il mondo a un livello così profondo da essere ormai come un organismo autonomo. Sono cose interconnesse tra di loro che si autoperpetuano e si autoaumentano.”
— Kevin Kelly

Secondo Kelly, la maggior parte delle invenzioni umane sarebbero inevitabili: se azzerassimo la vita sulla Terra, torneremmo prima o poi allo stesso punto tecnologico.

La sua tesi centrale è radicale: “Circa 10.000 anni fa, gli esseri umani hanno superato un punto di non ritorno in cui la loro capacità di modificare la biosfera ha superato la capacità del pianeta di modificarci. Quel punto di transizione è stato l’inizio del Technium. Ora stiamo attraversando un secondo momento di transizione in cui la capacità del Technium di modificarci supera la nostra capacità di modificare il Technium.”

AI - Bolle fragili e riflessi: metafora visuale della relazione tra architettura tecnologica e cognizione umana nell'era dell'intelligenza artificiale

La Verità è nel Mezzo (Ma il Mezzo è il Messaggio): AI e l’Alveare Cognitivo

Per me, in verità, la risposta sta in una posizione intermedia ma non rassicurante. La tecnologia e il suo sviluppo, e quello che ci interessa di più il suo effetto su di noi, è inscritto nella sua architettura, o per dirlo più semplicemente: come, perché e da chi è stata immaginata e concepita. Ma non si tratta di puro determinismo tecnologico: l’evoluzione è determinata precisamente dalla relazione con noi, con la nostra architettura biologica.

Questa non è una posizione di compromesso ma una terza via ontologica che riconosce come dall’ibridazione profonda tra architettura tecnologica e architettura biologica emerga un sistema completamente nuovo, con proprietà che non appartengono né all’una né all’altra.

L’idea che “dipende da come usiamo la tecnologia” presuppone una neutralità della tecnologia stessa che semplicemente non esiste. Ogni tecnologia porta con sé un’architettura – un insieme di significati, vincoli, e tendenze intrinseche – che si impone sulle nostre categorie cognitive. La sola esistenza di infrastruttura digitale di reti di scambio dati modella il nostro comportamento indipendentemente dalle nostre intenzioni. Come avrebbe detto McLuhan, il mezzo è già il messaggio.

L’approccio determinista invece, considera la tecnologia come unico agente e l’uomo come spettatore di forze che lo trascendono, vincolato alle leggi evolutive del progresso tecnico. Ignora dunque l’origine e la significazione umana dello strumento: la volontà, l’intenzionalità e il contesto culturale che ne definiscono la natura.

Ma soprattutto dimentica che la tecnologia non evolve in modo indipendente: essa cresce incorporando le nostre strutture cognitive, sociali e di potere. Le reti digitali e i social media non sono semplici strumenti di connessione, ma ambienti cognitivi — spazi in cui percezione, attenzione, memoria e linguaggio vengono modellati da architetture algoritmiche e logiche di piattaforma.

In questo senso, l’“ambiente cognitivo” non è una metafora, ma una condizione reale: il luogo dove si forma la nostra esperienza del mondo, dove la mente collettiva si interfaccia con infrastrutture digitali che filtrano, ordinano e attribuiscono significato alle informazioni. È qui che la tecnologia smette di essere un mezzo esterno e diventa un’estensione sistemica della nostra stessa mente.

In questa ibridazione profonda tra uomo e ambiente informazionale e intelligenza artificiale nasce un terzo sistema, il cui esito ci riporta purtroppo ai soliti tristi discorsi: se ci potenzia, se ci annichilisce, se ci diminuisce. L’uomo prima dell’AI è estinto. Nasce una nuova creatura. Diversa, sì. Se la confrontiamo con il passato, forse meno uomo, forse meno libera.

E qui entriamo nel cuore più oscuro della questione. Perché la rete e il suo strumento di retroazione e feedback dei segnali – l’intelligenza artificiale – non nasce per caso. Nasce per trasformarci in una società “migliore”, più efficiente, in cui siamo nodi passivi di una collettività, come in una mente alveare.

La “Society of Mind” di Minsky: Profezia AI della mente Alveare

Marvin Minsky, cofondatore del MIT Artificial Intelligence Laboratory, aveva già teorizzato nel 1986 questa visione collettiva della mente. Nel suo The Society of Mind, Minsky descriveva l’intelligenza non come un’entità singola, ma come “una vasta società di processi individualmente semplici, chiamati agenti.” Come scrisse: “Quale trucco magico ci rende intelligenti? Il trucco è che non c’è alcun trucco. Il potere dell’intelligenza deriva dalla nostra vasta diversità, non da un singolo principio perfetto.”

Per Minsky, la mente è composta da “molte piccole parti, ciascuna priva di mente di per sé.” Agenti mindless che, collaborando, creano l’intelligenza emergente. Una società interna.

Ma cosa succede quando questa metafora della società mentale viene rovesciata? Quando diventiamo noi gli agenti mindless di un’intelligenza artificiale collettiva? Quando la “Society of Mind” diventa una society of minds – un alveare di menti umane ridotte a nodi computazionali?

È qui che la metafora di Minsky acquisisce un significato profetico e inquietante. Nel 1986, Minsky descriveva come agenti privi di intelligenza, collaborando secondo un’architettura specifica, potessero generare una mente individuale intelligente. Oggi, nel 2025, assistiamo al processo inverso: individui intelligenti che, inseriti in un’architettura tecnologica specifica (quella delle piattaforme, degli algoritmi, delle BCI), diventano agenti mindless di un’intelligenza collettiva che non controllano. La società di menti che emerge non è la nostra – è quella progettata dalle Big Tech per massimizzare il profitto attraverso la prevedibilità comportamentale.

Questo rovesciamento illustra perfettamente perché parliamo di un terzo sistema emergente. Non siamo più individui che usano strumenti (narrazione sociologica), né siamo spettatori passivi di forze tecnologiche autonome (narrazione di Kelly). Siamo diventati componenti di un sistema ibrido le cui proprietà emergenti – l’alveare cognitivo – sono qualitativamente diverse sia dalla tecnologia in sé sia dall’umanità pre-tecnologica.

Le Brain-Computer Interface (BCI) rappresentano la manifestazione più letterale di questa ibridazione. Le interfacce neurali creano un collegamento diretto tra cervello e dispositivo esterno, senza l’intermediazione dei muscoli o dei nervi periferici. Non si tratta più di fantascienza: stiamo costruendo una connessione diretta tra la nostra coscienza e l’architettura algoritmica.

Ma chi controlla questa architettura? Chi decide i parametri di questo alveare cognitivo globale? Ed è qui che la questione dell'”architettura” rivela la sua dimensione politica cruciale.

Tech surveillance e AI: Il Grande Fratello Non è lo Stato, È Peggio

Queste tecnologie non sono state sviluppate da un Big Brother di stato orientato al controllo, ma dalle Big Tech. Perché, signori, domina il capitalismo, il dio denaro. Siamo consumatori, e come meglio prevedere le nostre scelte e i nostri gusti se non rendendoci una massa omologata con gli stessi bisogni?

Shoshana Zuboff ha dato un nome a questo sistema: il capitalismo della sorveglianza. I nostri dati diventano “surplus comportamentale” trasformato tramite AI in “prodotti predittivi” che vengono scambiati in un mercato dei comportamenti futuri.

Il risultato? Un “grande alveare” interconnesso dove individui agiscono come parte di un’intelligenza collettiva deprivata di creatività e libertà. Un’organizzazione sociale dove ai valori della reciprocità subentra la “funzione predittiva della certezza.”

Il Feedback Loop dell’Omogeneizzazione

Gli algoritmi di raccomandazione, alimentati dall’AI, non si limitano a prevedere le nostre scelte: le modellano, le rinforzano, le normalizzano. Attraverso l'”ingegneria del comportamento” veniamo progressivamente condizionati verso preferenze prevedibili, desideri standardizzati, bisogni omologati.

Meglio ancora: non siamo nemmeno consumatori in senso tradizionale. Siamo simultaneamente miniera da cui estrarre dati grezzi, cavie da osservare per perfezionare i modelli predittivi, e mercato finale a cui vendere la pubblicità iper-targettizzata. Una triplice reificazione che Marx non avrebbe potuto immaginare nemmeno nei suoi incubi più foschi.

Conclusione: Dall’Alveare Interno all’Alveare Globale

L’uomo pre intelligenza artificiale è già estinto. Non perché l’intelligenza artificiale sia cosciente o malevola, ma perché ha già modificato irrimediabilmente le nostre strutture cognitive, le nostre modalità di relazione, i nostri processi decisionali.

Minsky aveva intuito che la mente funziona come una società di agenti semplici. Ma ora quella metafora si è rovesciata: non siamo più società di agenti interni che creano intelligenza individuale. Siamo diventati noi stessi agenti mindless di un’intelligenza collettiva controllata da altri.

Come avrebbe detto McLuhan, siamo già “narcotizzati” dalla nostra estensione tecnologica. Come direbbe Kelly, il Technium ha già superato il punto di non ritorno. Come documenta Zuboff, siamo già nodi in un alveare che serve interessi economici privati, non il bene comune.

Siamo diventati nodi passivi in una mente collettiva – ma non una collettività democratica e liberatrice. Piuttosto, una collettività progettata per massimizzare il profitto attraverso la prevedibilità dei comportamenti. Siamo più connessi che mai, ma meno liberi. Più informati, ma più manipolati. Più potenziati tecnologicamente, ma più vulnerabili cognitivamente.

Riconoscere che la tecnologia non è neutrale — e nemmeno autonoma — significa accettare che dobbiamo agire dentro questa relazione, non ai suoi margini.

È qui che emerge la questione più profonda: la trasposizione dell’architettura sociale — inseparabile da quella biologica — nel nuovo meta-ambiente digitale. Un ecosistema in cui la linea di confine non è più tra uomo e macchina, ma tra libertà e controllo.

Il limite, come sempre, è il potere. E LA DOMANDA INVEVITABILE è chi controlla l’architettura della relazione?

Finora, la risposta è chiara e deprimente: le Big Tech, per il profitto. Non un Grande Fratello politico che almeno avrebbe una qualche parvenza di accountability democratica, ma un capitalismo della sorveglianza che trasforma la nostra stessa esperienza umana in materia prima per l’estrazione di valore.

Ma il tempo stringe, e l’AI accelera. La domanda rimane: siamo ancora in tempo?
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Bibliografia essenziale

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