RUMORE: IL MESSAGGIO NELLA SOCIETÀ DELL’INFORMAZIONE
Cos’è il rumore Social?
Leggi di più. Guardi video, ascolti più podcast di sempre. Eppure non sai niente.
E continui a pubblicare. Post, storie, thread, articoli. Documenti ogni esperienza, ogni pensiero, ogni momento. Eppure nessuno vede davvero.
Per millenni, l’informazione era scambio. Leggere significava raccogliere conoscenza, entrare in altri mondi simbolici. Parlare significava trasmettere senso. C’era simmetria: chi parlava sapeva di essere ascoltato. Chi ascoltava sceglieva cosa meritasse attenzione.
Le informazioni erano rarefatte, incomplete, ancora da elaborare. Basta pensare a quanto era difficile 20 anni fa trovare titoli di canzoni, articoli scientifici, documenti storici.
Oggi? Oggi produci e ricevi 650 milioni di contenuti al giorno. Scroll. Like. Pubblichi senza sapere se qualcuno leggerà. Condividi senza leggere a fondo. Reagisci senza verificare. A fine giornata non hai imparato nulla che cambierà il tuo pensiero. E nessuno ha davvero letto quello che hai scritto.
Il problema non è che leggi poco o pubblichi troppo. È che fai entrambe le cose compulsivamente e niente ha peso, o il peso giusto.
Sei passato da cercatore di conoscenza a processore di rumore. Da trasmettitore di senso a produttore nel vuoto. L’informazione non è più scambio tra umani. È flusso algoritmico che ci attraversa — in entrata e in uscita — senza mai sedimentare.
Ha ancora senso pubblicare quando nessuno legge? Ha ancora senso leggere quando tutti pubblicano? O meglio: perché continui a fare entrambe le cose anche quando sai che è inutile?
Per rispondere, dobbiamo capire cosa è successo alla struttura stessa dell’informazione.
LA STRUTTURA DEL’ESCLUSIONE
Negli anni ’90, mentre tutti celebravano Internet come democratizzazione della conoscenza, Manuel Castells vedeva qualcos’altro: l’avvento della Società Informazionale.
In The Rise of the Network Society descrive un cambio di paradigma sociale dove il potere deriva dal controllo dei flussi informativi. Due principi strutturali governano questa nuova realtà.
Primo: il tempo è collassato. Eventi che richiederebbero giorni devono essere analizzati in minuti. La reazione sostituisce il giudizio. L’urgenza diventa permanente. Non hai tempo di elaborare quello che leggi. Non hai tempo di curare quello che pubblichi.
Secondo: lo spazio fisico perde rilevanza. La tua comunità informativa non è più territoriale, è algoritmica. Pubblichi per un pubblico che non vedi. Consumi contenuti da fonti che non conosci.
Ma Castells va oltre. Identifica una conseguenza devastante: la network society produce strutturalmente disuguaglianze estreme. Non graduali. Esponenziali.

LA MATEMATICA DELLE RETI (DIGITALI E SOCIALI)
In Linked, Albert-László Barabási dimostra matematicamente quello che Castells descriveva: nelle reti di informazioni dominano le “power laws” — leggi di potenza che amplificano esponenzialmente le dinamiche sociali.
Nei modelli di distribuzione normale i valori sono uniformi, con la maggioranza vicina alla media. Nelle distribuzioni power laws, i valori sono fortemente asimmetrici: la maggior parte vicina al minimo, pochissimi al massimo.
È una fotografia perfetta della realtà digitale:
Web: l’1% dei siti riceve il 99% del traffico
Social: l’1% degli account catalizza il 90% delle interazioni
X: il 10% degli utenti produce il 92% dei contenuti visibili
Instagram: il 5% dei creator riceve quasi tutto l’engagement
LinkedIn: l’1%
Questa non è ingiustizia sociale (anche se lo è). È proprietà matematica dei network.
Barabási identifica il meccanismo preciso: attaccamento preferenziale. Quando un nuovo nodo entra nel network, si connette preferenzialmente ai nodi che hanno già molte connessioni. L’algoritmo amplifica chi è già visibile. Chi parte invisibile, resta invisibile. Nessuna seconda chance. Solo feedback loop esponenziale.
E tu? Statisticamente, sei il nodo invisibile. Sia quando produci, sia quando consumi.
Quando produci: l’algoritmo privilegia gli account che hanno già visibilità. Il tuo contenuto — per quanto brillante — partirà invisibile e resterà invisibile.
Quando consumi: l’algoritmo ti mostra sempre gli stessi nodi dominanti. Vedrai i soliti creator, i soliti brand, le solite voci. La diversità informativa che il network promette è un’illusione.
Robert K. Merton aveva già identificato questo fenomeno negli anni ’60 con il termine Matthew Effect: “a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Nei network digitali, l’effetto è amplificato di ordini di grandezza.
L’ECONOMIA DELL’ATTENZIONE
Nel 1971 Herbert Simon dichiarava: “in un mondo ricco di informazioni diventa scarso ciò che le informazioni consumano: l’attenzione.”
Ecco il paradosso dell’economia dell’attenzione: la produzione distrugge valore. Più contenuti esistono, più l’attenzione si frammenta, meno visibilità riceve ogni singolo pezzo, più devi produrre per sperare di essere visto. Circolo vizioso.
La società informazionale produce informazione in abbondanza patologica ma sempre meno conoscenza. Quella richiede tempo, sedimentazione, contesto. Richiede uscire dal flusso.
Ma tu non puoi uscire. Se esci dal flusso come produttore, diventi invisibile. Se esci come consumatore, sei tagliato fuori.
Neil Postman: l’informazione diventa disinformazione quando è scollegata dal contesto, dalla storia, dalla possibilità di azione. Non ricevi solo fake news. Ricevi troppe informazioni frammentate, decontestualizzate, inutilizzabili. E produci lo stesso: contenuti senza contesto, reazioni senza riflessione.
RUMORE
Daniel Kahneman in Noise (2021) ci da una chiara definizione di rumore come “variabilità indesiderata nei giudizi che dovrebbero essere identici”. Formula: Errore² = Bias² + Rumore². Anche eliminando completamente il bias, se mantieni alta varianza nei giudizi, l’errore resta enorme. Nei sistemi sovraccarichi, il rumore domina.
Nei social il nostro apparato percettivo è permanentemente sovraccarico. Come produttore: non sai cosa funzionerà, cosa verrà visto, cosa avrà impatto. Come consumatore: il giudizio è instabile, la capacità di valutazione si esaurisce.
Non puoi distinguere cosa è importante. Non per mancanza di competenze. Ma perché il volume stesso rende la distinzione strutturalmente impossibile.
Il rumore non è un bug. È la proprietà emergente di un sistema che ha superato la capacità cognitiva umana.
650 milioni di nuovi contenuti. Ogni giorno. Solo su Instagram, TikTok e X.
Il tuo cervello, nel migliore dei casi, elabora uno, forse due contenuti al secondo con piena attenzione. Il sistema produce a una velocità che supera di due ordini di grandezza la tua capacità cognitiva.
Non leggi più. Scorri. Non comprendi. Assorbi. Non rifletti. Reagisci. E non pubblichi per comunicare. Pubblichi per provare che esisti.
Più consumi, meno sai. Ogni contenuto cancella il precedente. Nessuna sedimentazione, integrazione, comprensione cumulativa.
Più produci, meno impatto hai. Ogni post si perde nel flusso. Ogni idea viene sepolta. Nessun accumulo di reputazione, costruzione di autorevolezza, crescita organica.
Perché continuiamo?
RUMORE SOCIAL E COMPULSIONE
Eppure non puoi smettere. Né di pubblicare, né di leggere.
Maurizio Ferraris in Documentalità (2012): “esistere significa lasciare tracce documentali”.
Un evento non documentato non è accaduto. Un’esperienza non postata non è stata vissuta. Un pensiero non condiviso non esiste. Ma c’è un secondo imperativo: se non sei informato, se non conosci il trend, sei tagliato fuori.
Non leggi più per capire. Leggi per esistere socialmente. Non pubblichi più per comunicare. Pubblichi per provare che esisti.
Due compulsioni. Una struttura. Stesso meccanismo.
Se non sei tracciabile — come produttore E come consumatore — non sei sociale. E in una società strutturata come network, questo significa espulsione. L’invisibilità equivale a non-esistenza.
Sherry Turkle ha dato un nome all’effetto: Fear Of Missing Out. Ma il FOMO nella società informazionale non è patologia individuale. È risposta razionale a incentivo strutturale. Vale sia per il consumo che per la produzione.
L’unico modo per evitarlo: restare permanentemente connessi. Controllare compulsivamente. Scrollare, pubblicare senza sosta.
Non sai cosa troverai scrollando. Non sai chi vedrà il tuo post. La variabilità è massima su entrambi i fronti. Come una slot machine: continui sperando che questa volta valga davvero la pena. Che questo post esploderà. Che questo scroll porterà qualcosa di prezioso.
Non succede quasi mai. Ma succede abbastanza spesso da mantenere il comportamento. È il variable ratio reinforcement schedule — rinforzo intermittente a rapporto variabile. B.F. Skinner lo dimostrava negli anni ’50 con i piccioni. Noi lo sperimentiamo volontariamente. Come produttori e come consumatori.
L’Auto-Sfruttamento Come Libertà
Byung-Chul Han in Psychopolitics (2014) descrive la conseguenza finale: il sentimento di inutilità strutturale mascherato da libertà.
Non stai fallendo come creator perché non sei bravo. Non stai fallendo come lettore perché non sei intelligente. Il sistema è progettato così. Ma il sistema ti fa credere che è colpa tua.
Han chiama questo “auto-sfruttamento ottimizzato”: il sistema ti convince che sei responsabile della tua visibilità E della tua informazione. Ma sei solo un nodo in un network che estrae valore da te (attenzione, dati, tempo, energie cognitive, contenuti) senza restituire né vera conoscenza né vera visibilità.
Nessuno ti obbliga. Tu scegli di aprire il feed. Tu scegli di scrollare, di pubblicare. Ma è davvero una scelta?

MIMETICI E RAZIONALI
Individualmente, restare informati è razionale. Individualmente, interagire, pubblicare e restare visibili è razionale.
Ma collettivamente? Più tutti producono, meno ciascuno viene visto. Più tutti consumano, meno ciascuno comprende.
Garrett Hardin aveva descritto questa dinamica negli anni ’60: “tragedia dei commons”: una risorsa comune liberamente accessibile viene sovra-sfruttata. Ogni individuo razionale massimizza il proprio utilizzo. Il beneficio è immediato e personale. Il costo — il degrado della risorsa — è distribuito su tutti.
È un equilibrio di Nash subottimale: scelte razionali individuali producono risultati disastrosi collettivi. Staremmo tutti meglio se producessimo e consumassimo meno. Ma nessuno può permettersi di essere il primo a disconnettersi. Resteresti indietro come lettore.
Siamo intrappolati in un dilemma del prigioniero informazionale dove l’unica mossa razionale è continuare a giocare — produrre e consumare contenuti compulsivamente — anche sapendo che il gioco è truccato.
RUMORE SOCIAL: SENZA USCITA
Ha ancora senso pubblicare? Ha ancora senso interagire in rete e informarsi?
No. Matematicamente no. Cognitivamente no. Razionalmente no.
Eppure continuiamo. A fare entrambe le cose. Perché il sistema ci ha convinto che l’alternativa — l’uscita dai network, il silenzio digitale, la disconnessione informativa equivale a morte sociale.
Continuiamo a pubblicare perché l’alternativa — l’invisibilità, l’esclusione, il silenzio — ci terrorizza più della futilità. La razionalità individuale produce irrazionalità collettiva. Siamo simultaneamente produttori, consumatori, e prodotti in un ecosistema che non può funzionare ma non può fermarsi.
Viviamo in una società dove lo scambio e la creazione di informazioni è inutile e obbligatorio.
Solo simulazione di connessione. Solo performance di esistenza. Solo produzione e consumo compulsivo di rumore per provare a noi stessi che siamo ancora qui, che sappiamo ancora qualcosa, che esistiamo ancora, che qualcuno ci vede.
Continuiamo a produrre nel vuoto e a leggere nel rumore sapendo che non avrà senso, sperando che forse, questa volta, qualcosa cambierà davvero. Che qualcuno vedrà. Che qualcosa avrà peso.
Non succederà.
Il rumore non è un bug. È il sistema.
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